23 Gennaio 2024

Peste suina africana, redditività delle aziende e scenari futuri per il settore della salumeria italiana

(Di Tiziana Formisano)

L’allarme per la Peste Suina Africana rimane alto e per il settore rappresenta un danno enorme che mette in gioco la sopravvivenza stessa delle aziende. Basti pensare che è già costata 500 milioni di mancato export. Ne parliamo con Davide Calderone, Direttore di ASSICA. La peste suina africana resta un tema che preoccupa il settore.

Quale è la situazione?

La situazione è drammatica. Credo che l’unico modo per contrastare questo virus sia quello di definire gli obiettivi investendo in attività che si sono dimostrate di successo in altri Paesi, come la protezione degli stabilimenti che detengono suini e il controllo delle popolazioni di cinghiali a vita libera. Devono essere adottate misure di biosicurezza rafforzate negli allevamenti per evitare il contatto suini domestici-selvatici mediante l’utilizzo di idonee barriere fisiche.

Ancora, è necessario provvedere a prevenire e, se mai, controllare l’ingresso del virus della PSA – nonché di altri patogeni – attraverso la presenza di una zona filtro tra area aziendale sporca e pulita, l’impiego di prodotti efficaci per la pulizia e la disinfezione di attrezzature e ambienti, il corretto stoccaggio dei mangimi, il controllo degli ingressi di personale e mezzi, etc. Sul fronte selvatico, invece, si deve tener conto del fatto che la diffusione e il mantenimento della malattia sono fattori dipendenti dalla densità degli animali; occorre procedere costantemente con censimenti delle popolazioni di questi ungulati per poter ridurre opportunamente la loro presenza sul territorio.

Per diminuire le densità di cinghiali selvatici bisogna intervenire, direttamente, attraverso un incremento degli abbattimenti (per lo meno del 150% rispetto al triennio 2019-2021) impiegando personale specializzato e dedicato, ma anche, contestualmente, riducendo le disponibilità trofiche, naturali o di origine antropica, del territorio. Alla luce del fatto che l’attività di prelievo dei cinghiali nei territori infetti e in quelli limitrofi può di per sé causare una sostanziale dispersione delle popolazioni animali e con esse della PSA, occorre prevedere l’installazione di barriere fisiche artificiali.

Sulla base di opportune valutazioni del rischio locale, si deve sfruttare la frammentazione dell’habitat per abbattere e rimuovere i cinghiali evitando di movimentarli, adottando misure di biosicurezza ad hoc pure nel corso di questa attività. Considerando le caratteristiche di resistenza virale, le carcasse di cinghiali – da ricercare attivamente in particolare nei territori infetti e in quelli limitrofi – rinvenute sul territorio devono essere prontamente rimosse, in quanto potenziale fonte di infezione per nuovi soggetti sani. L’anno scorso l’industria delle carni suine aveva chiuso in contrazione, sia nella domanda interna e nell’ultimo trimestre anche estera.

Che bilancio si profila, invece, per il 2023 sulla base dei rilievi più aggiornati?

Il 2023 è iniziato in salita: PSA, prezzi della materia prima molto alti, una generale debolezza dei consumi in termini di volumi acquistati e un rallentamento dell’export verso i Paesi terzi sono stati gli elementi che hanno caratterizzato l’inizio dell’anno e che stanno caratterizzando le dinamiche del mercato anche mentre scriviamo. Sul fronte dei consumi stimiamo che la contrazione nel primo semestre sia stata intorno al -3% sia per i salumi sia per la carne suina fresca pur a fronte di una crescita a valore +8% carne fresca +5% per salumi (prezzi al consumo).

Anche nella distribuzione moderna, dove i consumi secondo i dati Circana hanno tenuto di più (-0,3% in volume e +7,6% in valore), abbiamo riscontrato un andamento piatto degli acquisti a volume. L’aumento dei prezzi di certo non aiuta, e anche se alcune voci di costo mostrano un andamento più favorevole rispetto al 2022 il vero problema del settore, quello che ci differenzia anche da molti altri comparti dell’alimentare, è un elevatissimo costo della materia prima sia nazionale sia estera, dovuto alla minore disponibilità di carne suina sia sul mercato interno sia su quello europeo.

Tutto ciò impatta notevolmente sui conti delle aziende di trasformazione, comprimendo i margini in maniera davvero preoccupante. La domanda interna risente della diminuita capacità di spesa delle famiglie. A risentire maggiormente del contraccolpo sono i prodotti ad alto valore aggiunto come la bresaola, ma anche il prosciutto crudo DOP e il cotto di alta qualità. Al contrario, le esigenze di risparmio premiano le vendite di proposte più convenienti, spesso al banco taglio.

In questo difficile scenario, come aiutare l’industria a far fronte al calo della redditività?

La soluzione non è facile, occorre il coinvolgimento di tutta la filiera, compresa la grande distribuzione a cui va la parte maggiore dei margini. Agire sul prezzo finale non è sostenibile, perché i consumi si stanno già spostando verso salumi più economici e/o verso altri prodotti. Abbiamo riscontrato dopo molti anni un calo del preaffettato; ciò significa che i consumatori tornano a una spesa frequente e con minori quantità al banco taglio.

Una buona misura per sostenere i consumi sarebbe la riduzione dell’IVA applicata ai salumi, portandola dall’attuale 10% al 4% al pari di altri generi alimentari di prima necessità. I salumi forniscono proteine, sali minerali e vitamine preziose nelle giuste quantità coerenti con equilibrati regimi alimentari e sono oggi la declinazione moderna di una delle nostre più lunghe tradizioni gastronomiche. Sinceramente non comprendiamo come mai il tartufo sconti un’IVA ridotta al 5% mentre i salumi no.

Sul fronte export com’è la situazione?

Le limitazioni all’export determinate dalla presenza della PSA in Europa e in Italia, normative ambientali sempre più stringenti, costi di produzione elevati e una minore domanda estera, dovuta essenzialmente alla ripresa della produzione in Cina, hanno determinato una ristrutturazione e razionalizzazione della suinicoltura in gran parte dei principali Paesi europei produttori di suini con una conseguente minore disponibilità di materia prima e quindi un più elevato livello dei prezzi.

In questo contesto generale già molto complesso la presenza di alcuni focolai di PSA in Italia, inoltre, ha pesato sull’export verso i Paesi Terzi, soprattutto a causa di chiusure di mercato e/o adozione di limitazioni nei confronti delle nostre produzioni.

È stato approvato il testo normativo che disciplina l’uso dei nomi carnei su prodotti a base di proteine vegetali, ponendo un freno e un chiaro divieto al fenomeno del meat sounding. Un risultato fortemente voluto da ASSICA…

Siamo rimasti molto soddisfatti dall’approvazione della norma. Si tratta di una conquista culturale e di buon senso per la corretta concorrenza tra operatori del settore alimentare. Ora la norma andrà prontamente attuata per dare concretezza ai giusti principi che contiene. Il testo approvato, infatti, prevede l’emanazione di un decreto del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (Masaf) per l’individuazione delle denominazioni carnee da non utilizzare su prodotti a base vegetale.

La disciplina adottata dall’Italia non è la prima nel panorama mondiale: già Francia e Sudafrica hanno approvato previsioni esplicite in proposito. In sede UE invece ci furono tentativi passati di disciplinare la materia in maniera analoga a quanto si fece per il latte e i suoi derivati, ma senza che le proposte riuscissero ad approdare a rango normativo.

È una distinzione che la maggior parte dei consumatori riterrà probabilmente più legata al buon senso e che non dovrebbe richiedere l’interessamento del Parlamento per la fissazione di regole legislative così puntuali. Tuttavia, l’intervento si è reso necessario per tutelare la storicità produttiva di un’intera filiera: come esplicitato dai Deputati sostenitori dell’iniziativa, “le parole hanno un peso” e in questo caso il peso deriva dalla grande portata di storia, tradizione e manodopera esperta, specializzata, che è coinvolta dalla filiera zootecnica a ogni livello. Un impatto anche sociale che è molto diverso nelle produzioni plant based e che i promotori della norma ritengono corretto mantenere distinta.

Il nostro obiettivo adesso è andare in Europa per chiedere che anche l’UE si doti di una disciplina sulla materia, in maniera analoga a quanto già avvenuto per il settore del latte. Le norme sul food devono essere comuni in tutto il mercato unico. Non si tratta di una guerra ai prodotti di origine vegetale, ma di una battaglia a difesa di una filiera di cui gli stessi che cercano di evidenziarne i limiti da un lato, dall’altro tentano però di accaparrarsene i pregi, evocando nel consumatore l’insostituibile apporto nutrizionale, la tradizionalità cultural-gastronomica e la professionalità peculiare di un settore dalla storia secolare, appunto quello della lavorazione delle carni.

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